Formazione professionale per volare alto, di Giampaolo Fagotto           >>> Articoli - Saggi
Estratto da un articolo della rivista “CHORALiter” n. 15 - 2004

La formazione non è solo importante, è indispensabile, perché il pubblico, anche quello apparentemente meno preparato, esige sempre più qualità. […] Ma nel momento in cui la qualità aumenta, nel momento in cui – come vedremo – l’attività di molti cori tende inevitabilmente a somigliare sempre più a quella di gruppi professionali o comunque almeno non-solo-dilettanti, il confronto con le realtà professionali vere e proprie diventa inevitabile. Se così è, allora non basta che il mondo della coralità fornisca una sorta di servizio sociale, classificabile sotto la voce “attività del tempo libero”: deve invece costituire un vivaio dal quale possano via via nascere, formarsi e crescere nuove realtà concertistiche che possono benissimo restare amatoriali, ma che del mondo professionale dovranno sempre più imitare le modalità operative ed in definitiva il livello qualitativo. Realtà di questo genere non nascono da sole o per caso, ma vanno volute, pianificate razionalmente e pazientemente costruite in anni di lavoro, con criteri e metodi del tutto simili a quelli che sono in uso nel mondo musicale professionale.

1. Il mondo corale amatoriale italiano, per lo meno nelle realtà che m isono note, appare oggi notevolmente meglio strutturato, più finanziato, meglio sorretto da efficienti organizzazioni associative rispetto all’epoca in cui, giovane studente liceale, mi accostavo alla musica corale.[…] mi domando se i cambiamenti siano unicamente di questa natura o se ci sia dell’altro, ed in particolare se la qualità delle esecuzioni abbia avuto un’evoluzione di portata comparabile.Per rispondere a questa domanda è indispensabile però definire i termini di riferimento rispetto ai quali questa qualità si misura. Ritengo che tali riferimenti non possano essere interni al mondo corale perché sarebbe un’operazione improduttiva, destinata ad una sterile auto-soddisfazione. I riferimenti (positivi o eventualmente negativi) vanno cercati fuori, e vanno trovati in quelle realtà che sono affini alla coralità nel senso che, pur essendo professionali, affrontano però il medesimo repertorio, cioè eseguono approssimativamente la stessa musica ma con criteri e metodologie, appunto, professionali e rispondendo alle stringenti esigenze di quello che, anche in musica, si chiama mercato.[…] Il problema del confronto fra gruppi corali amatoriali e gruppi professionali dunque si pone, o perlomeno si pone in quei repertori che sono stabilmente comuni ad entrambe le categorie: il pubblico ha orecchie e, anche senza volerlo, fa confronti.[…] Facciamo dunque questo confronto e vediamo quali sono i punti in cui il coro amatoriale medio può migliorare. Nell’esecuzione del grande repertorio con orchestra il problema principale ancora incontrato dai cori amatoriali è di natura tecnico vocale: la cosa non sorprende, data la tendenza di questo repertorio ad essere piuttosto “pesante” per vocalità non professionali. Ma anche per il repertorio da chiesa antico il problema è principalmente la vocalità. A differenza di quanto spesso si crede, la vocalità da cappella, sia rinascimentale sia barocca, è ben altro che l’esile vocalità “madrigalistica”che molti immaginano: è al contrario estremamente robusta, timbrata e stabile, che richiede mezzi fisici importanti. A parte casi eccezionali, o feste di particolare solennità, le cappelle normalmente disponevano di pochi cantori: organici paragonabili a quelli di un coro moderno (30-40 persone) erano riservati a situazioni di grande ricchezza o solo per occasioni particolari ed erano giustificate dalle necessità acustiche di chiese enormi che, per le loro dimensioni richiedevano necessariamente “l’opera di molti”, come dice un antico documento che si riferisce a San Marco di Venezia.[…] conclusione: nonostante indubbi miglioramenti, la qualità tecnico-stilistica raggiunta dalla formazione corale amatoriale tipica ha ancora un ampio spazio di miglioramento: la sfida lanciata alle formazioni vocali professionali segna allora ancora di più la necessità di trovare in queste ultime strumenti di lavoro, metodologie e tecniche da studiare, imitare e, per così dire, “rubare”.

2. Si potrebbe tuttavia obiettare che, se è utile assumere i professionisti come riferimento ideale, potrebbe non essere altrettanto utile o addirittura pericoloso tentare di imitare le loro metodologie di lavoro e di formazione, come se si stesse tentando di trasformare l’Associazione Parrocchiale Calcio in una Juve o in un Milan. Quest’obiezione va affrontata, perché – questa è la mia tesi – è sbagliata ma non stupida. Anzitutto va detto che, se è vero che ci sono normalmente più metodi diversi per fare la stessa cosa, in ogni settore dell’attività umana esiste però un insieme di metodi di riferimento, considerati tali dallo stato dell’arte in un dato momento storico.
[…] Se le cose stanno così, non c’è alternativa: un coro che vuole crescere, deve per forza “copiare” i metodi di lavoro dei professionisti. Potrà non arrivare al loro livello (e nessuno si scandalizzerà), ma non potrà evitare il confronto se eseguirà repertori identici o almeno analoghi: dunque sarà bene che per crescere e migliorare usi metodologie approvate dalla comunità degli esperti, le stesse che usano i professionisti.

3. Il punto importante e veramente pericoloso è proprio questo: appurato che l’Associazione Parrocchiale Calcio non diventerà Juve né Milan, come è possibile fare perché – ciononostante – migliori e diventi più brava di prima? Ecco alcuni brevi consigli, che vanno presi per quello che sono: dieci consigli, non dieci Comandamenti. Alcuni appariranno ovvi, altri irrealizzabili, ma credo che nessuno sia né l’una né l’altra cosa.

I. Serve una formazione vocale, e una formazione vocale non significa fare “qualche” lezione. Inutile illudersi: la prima dote del corista è di saper cantare bene. Tutto il resto sono storie. Se vi dicono che otterrete risultati con poche lezioni del tale celebre soprano, oppure con un solo mese di lavoro all’anno, oppure con lo yoga o le acque benedette, oppure con un breve corso basato su uno strabiliante metodo tedesco (francese, ungherese, americano...): non credeteci, sono storie. Ci vogliono normalmente alcuni anni di lavoro, e se non è serio, non ci sono garanzie. Naturalmente anche qualche sporadica lezione di canto fa bene, come no, ma se vi fermate lì è un po’ come fare la dieta per un mese e poi comprarsi un bidoncino di Nutella.

II. La formazione vocale riguarda l’intero gruppo, ma il lavoro è anche individuale. Avere in ogni sezione una persona che canta bene è buona cosa, ma non illudetevi che basti per cambiare la realtà del vostro gruppo: più persone cantano bene e meglio è. […] È vero che quasi in ogni coro c’è uno zoccolo duro di vecchie glorie che “sanno già tutto”; è anche vero che quasi in ogni coro ci sono persone convinte di essere troppo avanti negli anni per fare certe cose, ma credete al maestro Manzi: non è mai troppo tardi. Detto questo, anche se alle lezioni partecipa tutto o gran parte del gruppo, bisogna capire che il lavoro è anche individuale e coinvolge, a turno, tutti i presenti anche individualmente, oltre che come coro intero o come sezione. Questo discorso suscita talvolta perplessità, perché spesso c’è paura di creare tanti piccoli solisti, il che, come si dice, “rovina la fusione”. Può essere vero e l’argomento va assolutamente affrontato, specie pensando ai guai che un’impostazione cosiddetta “lirica” potrebbe fare in un gruppo dedito ad altri repertori (poniamo, al madrigale), ma non lo si affronta preferendo voci stimbrate, non sonore, velate, incolte come purtroppo spesso si fa: si deve invece da un lato educare chi ha più mezzi a non strafare e dall’altro chi fa finta di cantare a farlo per davvero. I coristi devono capire che il suono del gruppo lo creano singolarmente loro, non lo fa il direttore e sono dunque loro, uno per uno, che devono dare un contributo al gruppo, anche studiando.Ovviamente nel gruppo comprendo anche il direttore! Deve partecipare alle lezioni anche lui (vedi anche punto IX), per due motivi. Il primo è psicologico: solo la sua partecipazione attiva spinge i coristi a dare peso alla cosa. Il secondo è pratico: deve capire quali sono le cose che può chiedere al coro e quali quelle che sono per il momento troppo difficili; deve sapere come chiedere ed ottenere le prime ed evitare le seconde. Nella pratica corale ordinaria deve usare lo stesso linguaggio e le stesse metodologie usate durante le lezioni di canto, che in questo modo vengono ribadite, confermate e memorizzate. Alcuni direttori usano non partecipare alle lezioni perché “loro quelle cose già le sanno”; benissimo, ma allora non chiamino nessun altro ad insegnare vocalità al coro: si decidano a farlo, e per davvero, loro stessi.

III. La formazione vocale non è indipendente dal repertorio. È indispensabile che il direttore abbia ben chiaro il repertorio sul quale intende lavorare, perché anche da quello dipende il tipo di formazione vocale sulla quale andrà impostato il lavoro. Non ne faccio una questione stilistica: dico che devono esserci da subito idee chiare almeno su alcuni grandi “aree” di preferenza verso le quali ci si dirigerà, perché la scelta di una determinata emissione condizionerà grandemente, per motivi meramente tecnici e non solo stilistici, i risultati ottenibili. È ben vero che la gola è sempre la stessa e che lo è anche, nel complesso, la tecnica vocale; ma è anche vero che la gola è ben più flessibile, adattabile e versatile di quanto molti sospettino. Inoltre, educare la gola è educare il cervello, è prendere abitudini, è assorbire un certo modo di porgere: in questo il repertorio affrontato è elemento essenziale.Questo spiega perché la formazione vocale non può essere solo generica. È importante che chi la fa non sia semplicemente un “maestro di canto” o “uno tanto bravo che canta tanto bene”. Deve essere una persona che conosce per davvero e a fondo le caratteristiche, non solo vocali, ma anche stilistiche del repertorio che quel coro intende affrontare (vedi anche punto V).

IV. Un certo grado di “specializzazione”del repertorio del coro non solo è indispensabile, ma fa anche bene all’attività del gruppo. È una conseguenza importante del punto precedente. Se volete fare tutto, dal repertorio di montagna al Canto Gregoriano, da Monteverdi a Verdi, da Bach al Jazz, potete farlo: ma sappiate che sarà molto improbabile che facciate tutto egualmente bene fin da subito. Io suggerirei invece un certo blando grado di specializzazione. E, anche in questo caso, non mi ingerisco in scelte musicali che competono al direttore o a chi per lui: parlo invece dal punto di vista strettamente tecnico. Ogni repertorio abitua la gola a fare certe cose e non altre ed abitua il cervello a pensare a certe cose e non ad altre. Scegliere un repertorio adatto significa aiutare la gola ed il cervello del corista. Poi, quando si vuole cambiare o ampliare il repertorio, un sano periodo di formazione stilistica aiuterà voci già formate a prendere altre, nuove e sane abitudini.

V. La formazione vocale da sola non basta: occorre una formazione stilistica. La prima dote del corista è saper cantare, certo, ma se vi dicono che questo basta, non credeteci: sono storie. Un vecchio direttore diceva che “è il direttore che fa il coro”, e aggiungeva che i coristi “non devono sapere, ma seguire”. Si sbagliava di grosso. Una massa di persone che seguono pedissequamente il direttore, senza idea di dove vuol arrivare e di che effetto vuole ottenere, non sono neanche in grado di seguir bene le sue intenzioni. Il gusto e lo stile, propri dei vari repertori, vanno invece formati e curati, fino a creare un “modo di porgere” caratteristico del gruppo, costante e ben definito all’interno di ciascun repertorio, ma differenziato fra un repertorio e l’altro. Lavorare in questa direzione è fondamentale anche per velocizzare le prove e migliorare i risultati, standardizzando l’approccio ai vari repertori (sulla standardizzazione del lavoro vedi anche il punto IX). Ma attenzione: la formazione stilistica non avviene da sé: va perseguita e voluta con tenacia (vedi anche punto III).

VI. La formazione vocale e stilistica da sole non bastano: serve una formazione musicale generale. Questo sì che è un discorso sgradevole. Occorre che il maggior numero possibile di coristi legga la musica. […] Tuttavia siccome è un discorso sgradevole, non insisto. Osservo però che sempre più spesso trovo nei cori persone che, pur non leggendo a prima vista, “si arrangiano” e anche piuttosto bene. Mi pare buon segno.

VII. Come nella normale attività corale, occorre aspettarsi e mettere nel conto una certa percentuale di “mortalità” dei coristi. Ci saranno sempre persone ostili al lavoro sulla tecnica vocale, sullo stile e sulla lettura musicale, persone che rischiate di perdere o persone che dopo qualche incontro diserteranno i corsi. Ogni introduzione di novità, ogni processo decisionale che incida sul quieto vivere quotidiano e – soprattutto – che cambi l’immagine che ciascun corista si è fatto dell’attività del coro può scatenare opposizioni di qualche tipo. Ma non c’è da aver paura. È qualcosa che fa parte della vita del gruppo: può capitare anche quando deciderete di cambiare il colore delle divise del coro o di partecipare ad un concorso o di fare una gita tutti assieme. Sta alla dirigenza del coro effettuare una valutazione prudente e ponderata e prendere eventuali contromisure. Credo che tutto sarebbe più semplice se ogni corista, al momento in cui entra nel coro, fosse informato e cosciente che la formazione sarà parte integrante ed assolutamente normale della propria attività, come le prove ed i concerti.

VIII. Bisogna prevedere una certa modulabilità del gruppo e lavorare per ottenerla. Per fare veramente progressi, tutto il coro deve progredire, ma ciò non significa che non possano e non debbano esserci progressi a più velocità. Avere al proprio interno persone che cantano meglio non solo serve da stimolo – se gli inevitabili problemi di rivalità vengono gestiti con intelligenza – ma serve anche per dare alla formazione flessibilità e modulabilità, consentendo di affrontare repertori in cui, ad esempio, accanto al coro grande serva anche un coro piccolo (a parti reali) o un piccolo gruppo di solisti, o in cui sia possibile affrontare il repertorio policorale senza essere necessariamente in 80 persone. Questo consente oltretutto anche di variare il menù delle proposte concertistiche, inserendo in programma brani a parti reali che spezzino la monotonia. Secondo me, poche cose fanno crescere vocalmente e musicalmente i coristi quanto studiare (e più tardi, magari, eseguire in pubblico) anche brani a parti reali, in cui ognuno ha l’intera responsabilità di quel che canta. Un coro che vuole crescere, secondo me, deve dedicare del tempo a questo, deve lavorare per ottenerlo. Una volta formati coristi così, essi potrebbero sdebitarsi col coro che ha investito su di loro tempo e denaro, partecipando alla formazione dei nuovi membri più giovani.

IX. Oltre alla formazione del coro, è indispensabile insistere sulla formazione del direttore. Mi sa che questo è, come quello del punto VI, un discorso sgradevole, ma indispensabile. Una seria formazione del direttore è necessaria quanto quella del coro. E non intendo – sarebbe scontato – parlare delle tecniche di direzione e della vocalità: parlo di stile e repertorio.Dovrebbe diventare un’abitudine leggere, approfondire e partecipare ad attività specifiche di formazione […] L’idea di fondo è quella di un direttore che non solo ha idee chiare su stile ed interpretazione, ma che propone ai propri coristi modalità di lavoro altamente standardizzate, perché fondate non sull’improvvisazione, ma su conoscenze. Solo metodiche di questo tipo consentono di far emergere l’indispensabile originalità ed unicità dell’interpretazione del singolo brano musicale. Quando affrontano un brano nuovo appartenente ad un certo repertorio, i coristi dovrebbero avere l’impressione di conoscerne già tutto... a parte le note! La definizione delle specifiche caratteristiche di ogni repertorio (tipo di vocalità, tipo di effetti musicali richiesti, stile e così via) dovrebbe essere la base di questa metodologia di lavoro: ma questo è impossibile senza un’adeguata formazione (e anche senza un certo grado di specializzazione, anche se non definitiva, vedi punto IV).

X. Oltre alla Juve e al Milan, c’è anche il Chievo. Mi par già di sentire i commenti: tutto bello e tutto giusto, ma irrealizzabile.Commento sbagliato: il Chievo non c’è solo nel calcio, ma anche nella musica corale. Potrei fare nomi di formazioni corali amatoriali che, lavorando esattamente con questi principi, sono passati da un livello dilettantistico ad uno professionale o semi-professionale, anche se i loro coristi continuano a fare il lavoro di prima e non sono diventati cantanti professionisti. […] crescere e migliorare, anche tanto, si può. E, secondo me, si deve.

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